Mercoledì 3 maggio alle 11.45 ero affacciata alla finestra. Mi trovavo a trecento chilometri dalla mia regione visto che non lavoravo più da metà marzo. Ero in vacanza? Pareva di sì. Dico “pareva”, perché il telefono ce l’avevo sempre in mano. Ad aspettare la chiamata, naturalmente. Era un periodo di sospensione e attesa. Ovvero: di disoccupazione.
Piccola storia di un buco nero che risucchiò la logica
“La filosofia”
«Prof, ce l’ha instagram?», domanda tutt’altro che innocua: foriera di curiosità ai limiti della “maliziosità stalkerante” di ragazzi adolescenti.
«Non mi troverete mai». Pivello. Tu, davvero, ingenuo e novellino. Improvvisamente sei catapultato dall’essere docente a “laureato all’università della vita”. Mai sfidare dei quattordicenni: ci hanno messo poco meno di un mese, ma alla fine hanno iniziato a inviarmi richieste da parte di quasi tutta la classe.
Ma la colpa è tua, tu che ti nascondi dietro ad un anagramma: di fronte alla volontà maliziosissima – in senso buono, s’intende – e compulsiva del “prof, ce l’ha instagram?”, tutto (de)cade.
C’è da dire che la prima di quest’anno è una classe piena di vita e brulicante di necessaria voglia di interazione, dopo due anni infernali a distanza e a subir meccanismi machiavellici con arguti (ma inutili) cambi di denominazione acronimica da DAD a DDI. Tutti, ma proprio tutti, atti a voler significare una sola cosa da parte del Ministero: continuiamo a distanza perché non possiamo diminuire il numero degli alunni per classe (sennò tocca assumere docenti, vaderetroSàtana), non possiamo ammettere che abbiamo tagliato così tanto alla scuola e ora ci ritroviamo senza risorse.
Non dondolare la barca: passeggia sul molo guardandole tutte, ma guai a salirci sopra.
Seguendoci a vicenda, assieme a ragazze e ragazzi, abbiamo scoperto lati di noi stessi che non conoscevamo e in particolare una studentessa ho scoperto essere molto attratta dalla filosofia. Non sa bene cosa sia, effettivamente, sa solo che è qualcosa «che ti aiuta a ragionare»: in ogni storia o post che realizza si firma così: “la filosofia”. «E poi, prof» – mi fa – «credere in se stessi, in parte, è anche filosofia». Due anni di didattica a distanza totale e mista, medie completamente saltate, arriva in prima superiore e ogni tanto il suo insegnante di italiano e latino gli dice qualcosa su Platone, su Socrate, su Schopenhauer e su Marx.
Ecco che la filosofia assume un tratto più marcato: non tanto di “auto aiuto” come poteva concepirla prima la studentessa ma come fattore in sé e per sé.
Perché, in fondo, uno dei grandi inganni dei tempi disgraziati che stiamo vivendo è il seguente: l’assunto che la filosofia non serva più di tanto alla formazione di un essere umano, tanto più che la psicologia ha fagocitato (o almeno così s’è fatto credere ai più) la volontà e l’intenzione di “analisi e introspezione” di ognuno di noi.
Mi ha scritto: «la filosofia ci permette di definire i modi di pensare e di agire dell’essere umano ed ogni modo di pensare e di agire è diverso da ogni persona».
Le ho immediatamente regalato la mia copia de Il mondo di Sofia di Gaarder: è una lettrice, anche se di letteratura cosiddetta “young/adult”, ma ha reagito molto bene a “Sostiene Pereira” di Tabucchi e le è piaciuto molto.
Perché sto scrivendo tutto questo?
Perché non vedrò la maturazione della mia studentessa e l’elaborazione successiva che sarà propria di una mente in divenire, in formazione, in costante ricerca di sapere per il suo benessere psico-fisico. Non lo vedrò perché per loro quello strano non-più-troppo-giovane-professore è stato la meteora del primo anno di scuola: un supplente è questo, d’altronde.
Una meteora e un tappabuchi.
Chissà se la mia studentessa di prima, la filosofia, amerà davvero i miti platonici, Socrate, Feuerbach, Kierkegaard. Non mi è dato saperlo.
La continuità didattica è lo scalpo agitato dai Ministri come quello dei posti di lavoro da aumentare dal politicante di turno il giorno prima delle elezioni: frasi senza contesto e a cui la volontà conseguente è, ovviamente, del tutto assente.
Come, quando, chi, perché
Un altro blog scolastico? Se ne sentiva davvero il bisogno?
Sì, lo sentivamo davvero.
«D’accordo, ma perché? Non se ne parla già abbastanza di scuola?».
C’è da intendersi subito: di scuola se ne parla fin troppo ma, come spesso accade quando si sovralimenta un dibattito attorno ad un tema, lo si rende avulso da ogni contesto nel quale, invece, è necessario (re)inserirlo; lo si sradica fino a fargli perdere contenuto; lo si ravviva con boutade e colpi di testa di questo o quel ministro, celebrità in cerca di visibilità che blatera qualcosa sul sistema scolastico e via dicendo.
Vorremmo provare a raccontare, in realtà, la scuola vera, quella che abbiamo imparato a conoscere da precarie e precari, da assistenti alla persona con contratto (esterno) a ore, da docenti che consegnano i propri giorni per un anno scolastico a cui non ne seguirà un altro.
La giostra delle supplenze si rimetterà in moto e ricomincerà anche a girare il tamburo della pistola con un solo colpo in canna.
Vorremmo provare a raccontare una scuola concreta: quella dei soldi investiti per le LIM, per i computer in ogni aula, per ogni dispositivo elettronico messo a disposizione per gli studenti. Quella che, parallelamente, per ogni dispositivo elettronico in ogni classe, ha un controsoffitto che crolla, un’infiltrazione d’acqua nei muri, topi nei bagni e nei corridoi. Quella dei “soldi a pioggia del PNRR”, quella dell’ulteriore informatizzazione e digitalizzazione con i plessi scolastici che crollano. Perché il 110% per ristrutturazioni a prezzi gonfiati, speculazioni, abusi, va pur bene, per mettere in sicurezza le scuole no. Mortificare la scuola è il primo passo per la sua informatizzazione: se qualcosa va storto c’è sempre la didattica a distanza o didattica digitale integrata (che poi sempre “a distanza” è, al netto della perifrasi).
Vorremmo provare a raccontare la nostra esperienza reale della scuola a partire dalla pandemia: abbiamo iniziato a lavorare nell’A.S. 19/20: abbiamo vissuto 6 mesi di scuola “com’era prima”, abbiamo provato sulla nostra pelle com’è stata “dopo” e com’è ora. Abbiamo sentito le farneticazioni di due ministri che ben poco hanno avuto da dire sull’istruzione se non reiterare e riproporre i soliti luoghi comuni.
Ecco, a proposito di luoghi comuni, in questo spazio vorremmo destrutturarli passo dopo passo, uno per uno, a partire dal primo, quello per cui “i docenti hanno tre mesi di vacanza in cui vengono pagati e non fanno niente“.
Sarebbe stupendo se fosse vero, a prescindere. Sarebbe anche meraviglioso se si dicessero le cose come stanno: cioè che a noi precarie e precari non ci spetta neanche un centesimo al termine del contratto e, ogni anno, in piena estate, passiamo i giorni a contattare l’INPS per far sì che ci venga attivata la disoccupazione. Che non arriva mai quando dovrebbe, che si interrompe sempre troppo presto, che arriva a tranches di 20 euro a bonifico, che viene interrotta perché hai partecipato a un consiglio di classe straordinario di un’ora negli otto giorni in cui non avresti dovuto “ri-occuparti” e allora “ciao sostegno estivo”.
Ecco, vorremmo essere luce e coraggio: per illuminare un altro lato del prisma, per raccontare quello che vediamo; per dire alle studentesse e agli studenti che devono capire quel che succede a noi dall’altra parte della barricata, così da dirlo anche alle famiglie.
Perché le famiglie, davvero, a parte rari casi, pensano che non facciamo niente e che siamo stra-pagati per 18 ore alla settimana e poi ce ne torniamo a casa a non fare niente.
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Non dire una parola che non sia d’amore
Oggi è esattamente un mese che non entro in classe, e mi manca. Eppure non è tanto che mi chiamano “prof”: a novembre del 2021 ho svolto la mia prima brevissima supplenza in una scuola pubblica. Il mio primo giorno di scuola da insegnante è stato, volendo usare un eufemismo, traumatico.
La prima ora la trascorro con trenta ragazzi di undici anni in una minuscola aula del seminterrato di scuola. E’ una delle nove classi che devo vedere nelle mie diciotto ore settimanali. È il primo giorno e non ho ancora le credenziali del registro elettronico, non posso fare l’appello e nemmeno mi pongo il problema. In realtà, non mi rendo conto che sono proprio io quella che dovrebbe fare l’appello, segnare i ritardi, le uscite anticipate – insomma, fare le cose che dovrebbe fare una prof.
Prof, prof, cosa facciamo?
Lì mi rendo conto, mascherata dietro la mia combo ffp2+chirurgica e stretta nel mio giubbotto ché le finestre vanno tenute aperte per non saturare l’aria di CO2 e fa un freddo cane, che la prof sono io. Che non sono più quella delle ripetizioni o la studentessa di Lettere. No, adesso sono anche “la prof.”. E da lì non sono più tornata indietro.
Da quel giorno mi sono ritrovata catapultata in un mondo bellissimo, assurdo e doloroso, dove la linea che separa l’entusiasmo dall’esaurimento nervoso è così sottile che spesso mi sono resa conto che è un lavoro così appassionante che potrei anche finirne travolta. Non so se fare l’insegnante sia una vocazione; io non ho sentito nessuna “chiamata”. Volevo fare altro, ma mi ci sono ritrovata dentro e non mi sono tirata indietro. Un po’ perché a me per prima la scuola ha letteralmente salvato la vita; un po’ perché l’insegnamento è una forma di politica dove nessuno – ma davvero nessuno – deve mai restare indietro. Questo si dovrebbe fare – si deve fare – nella scuola pubblica.
Proprio quella che provano a smantellare giorno per giorno. Quante volte ho letto queste parole, negli anni del liceo e dell’università.
E a quante manifestazioni ho partecipato contro “lo smantellamento della scuola pubblica”. Ma in cosa consiste, esattamente?
La distruzione della scuola pubblica consiste, ad esempio, nello stipare trenta ragazze e ragazzi in un’aula minuscola in piena emergenza pandemica. Nel fatto che per non ammalarci possiamo contare solo sulle nostre mascherine e sui nostri gel, ché il distanziamento non è mai stato davvero pensabile, in classi così affollate.
Che porto sempre nella borsa un pacco di mascherine, perché se si rompono nessuno ha quella di scorta – in pochi si possono permettere di spendere tutti quei soldi per un dispositivo di così vitale importanza.
Consiste nel fatto che, iscritta alle graduatorie nel luglio 2020 a pochi mesi dalla laurea, ho ricevuto la mia prima chiamata per una supplenza nel novembre del 2021, e per soli sei giorni. Nel fatto che nel mio contratto di lavoro, iniziato a dicembre e terminato a febbraio, non mi sono state pagate le vacanze sebbene ne avessi diritto e senza sapere se effettivamente a gennaio sarei ritornata.
Consiste nel fatto che un docente per lavorare deve pagare. Assurdo, no? Noi docenti precari, in particolare, dobbiamo pagare tantissimi soldi (almeno la metà del nostro stipendio) per avere dei certificati per aumentare il punteggio e sperare così di ottenere una annualità completa. Cioè sperare di poter vedere per un anno le stesse classi.
Come ho accennato sopra, durante la mia prima supplenza mi sono state assegnate nove classi. Nove. Mi sono chiesta se fossi stata in grado di insegnare seriamente per un intero anno in una situazione del genere. Non lo so, questa è la verità. Come è possibile lavorare seriamente su nove classi, con una media di duecento alunni?
A questo punto mi potreste dire che insomma, queste cose si sanno. Ché dai, all’inizio è così ma poi cambia. Vinci il concorso, magari. Anche quella del concorso è una faccenda interessante, sulla quale però preferisco dilungarmi in un altro momento. Per non andare fuori tema, è chiaro che se il 90% dei candidati non l’ha superato il problema dei posti vacanti rimane, e così quello del precariato che supplirà inevitabilmente a quel vuoto.
Uscendo dalla mia sede di concorso, l’aula informatica di un istituto superiore, una collega sulla cinquantina ha riso, dopo aver saputo di essere rimasta bocciata, e ha sbottato: “Al Ministero conviene di più l’esercito di precari!“.
È proprio così. Quella che sembra una ovvietà è in realtà l’unico modo per comprendere che la precarietà in questo mestiere è funzionale a tenere in vita quel che resta della scuola. Quel che resta della scuola è un mondo stupendo ma è tale solo perché alcuni docenti e i ragazzi ci mettono il loro cuore. Suona melenso, è vero. Ma è così. La scuola resta in piedi perché noi ci mettiamo l’amore e la cura, non perché anche questo governo, come i precedenti, ha diminuito i fondi destinati alla scuola pubblica.
Perciò sulla scuola, sul mio lavoro, sugli studenti e le studentesse che stanno vivendo il periodo più difficile dal dopoguerra ad oggi non dirò una parola che non sia d’amore. Di un amore pieno di rabbia, ma solo d’amore.
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