Oggi è esattamente un mese che non entro in classe, e mi manca. Eppure non è tanto che mi chiamano “prof”: a novembre del 2021 ho svolto la mia prima brevissima supplenza in una scuola pubblica. Il mio primo giorno di scuola da insegnante è stato, volendo usare un eufemismo, traumatico.
La prima ora la trascorro con trenta ragazzi di undici anni in una minuscola aula del seminterrato di scuola. E’ una delle nove classi che devo vedere nelle mie diciotto ore settimanali. È il primo giorno e non ho ancora le credenziali del registro elettronico, non posso fare l’appello e nemmeno mi pongo il problema. In realtà, non mi rendo conto che sono proprio io quella che dovrebbe fare l’appello, segnare i ritardi, le uscite anticipate – insomma, fare le cose che dovrebbe fare una prof.
Prof, prof, cosa facciamo?
Lì mi rendo conto, mascherata dietro la mia combo ffp2+chirurgica e stretta nel mio giubbotto ché le finestre vanno tenute aperte per non saturare l’aria di CO2 e fa un freddo cane, che la prof sono io. Che non sono più quella delle ripetizioni o la studentessa di Lettere. No, adesso sono anche “la prof.”. E da lì non sono più tornata indietro.
Da quel giorno mi sono ritrovata catapultata in un mondo bellissimo, assurdo e doloroso, dove la linea che separa l’entusiasmo dall’esaurimento nervoso è così sottile che spesso mi sono resa conto che è un lavoro così appassionante che potrei anche finirne travolta. Non so se fare l’insegnante sia una vocazione; io non ho sentito nessuna “chiamata”. Volevo fare altro, ma mi ci sono ritrovata dentro e non mi sono tirata indietro. Un po’ perché a me per prima la scuola ha letteralmente salvato la vita; un po’ perché l’insegnamento è una forma di politica dove nessuno – ma davvero nessuno – deve mai restare indietro. Questo si dovrebbe fare – si deve fare – nella scuola pubblica.
Proprio quella che provano a smantellare giorno per giorno. Quante volte ho letto queste parole, negli anni del liceo e dell’università.
E a quante manifestazioni ho partecipato contro “lo smantellamento della scuola pubblica”. Ma in cosa consiste, esattamente?
La distruzione della scuola pubblica consiste, ad esempio, nello stipare trenta ragazze e ragazzi in un’aula minuscola in piena emergenza pandemica. Nel fatto che per non ammalarci possiamo contare solo sulle nostre mascherine e sui nostri gel, ché il distanziamento non è mai stato davvero pensabile, in classi così affollate.
Che porto sempre nella borsa un pacco di mascherine, perché se si rompono nessuno ha quella di scorta – in pochi si possono permettere di spendere tutti quei soldi per un dispositivo di così vitale importanza.
Consiste nel fatto che, iscritta alle graduatorie nel luglio 2020 a pochi mesi dalla laurea, ho ricevuto la mia prima chiamata per una supplenza nel novembre del 2021, e per soli sei giorni. Nel fatto che nel mio contratto di lavoro, iniziato a dicembre e terminato a febbraio, non mi sono state pagate le vacanze sebbene ne avessi diritto e senza sapere se effettivamente a gennaio sarei ritornata.
Consiste nel fatto che un docente per lavorare deve pagare. Assurdo, no? Noi docenti precari, in particolare, dobbiamo pagare tantissimi soldi (almeno la metà del nostro stipendio) per avere dei certificati per aumentare il punteggio e sperare così di ottenere una annualità completa. Cioè sperare di poter vedere per un anno le stesse classi.
Come ho accennato sopra, durante la mia prima supplenza mi sono state assegnate nove classi. Nove. Mi sono chiesta se fossi stata in grado di insegnare seriamente per un intero anno in una situazione del genere. Non lo so, questa è la verità. Come è possibile lavorare seriamente su nove classi, con una media di duecento alunni?
A questo punto mi potreste dire che insomma, queste cose si sanno. Ché dai, all’inizio è così ma poi cambia. Vinci il concorso, magari. Anche quella del concorso è una faccenda interessante, sulla quale però preferisco dilungarmi in un altro momento. Per non andare fuori tema, è chiaro che se il 90% dei candidati non l’ha superato il problema dei posti vacanti rimane, e così quello del precariato che supplirà inevitabilmente a quel vuoto.
Uscendo dalla mia sede di concorso, l’aula informatica di un istituto superiore, una collega sulla cinquantina ha riso, dopo aver saputo di essere rimasta bocciata, e ha sbottato: “Al Ministero conviene di più l’esercito di precari!“.
È proprio così. Quella che sembra una ovvietà è in realtà l’unico modo per comprendere che la precarietà in questo mestiere è funzionale a tenere in vita quel che resta della scuola. Quel che resta della scuola è un mondo stupendo ma è tale solo perché alcuni docenti e i ragazzi ci mettono il loro cuore. Suona melenso, è vero. Ma è così. La scuola resta in piedi perché noi ci mettiamo l’amore e la cura, non perché anche questo governo, come i precedenti, ha diminuito i fondi destinati alla scuola pubblica.
Perciò sulla scuola, sul mio lavoro, sugli studenti e le studentesse che stanno vivendo il periodo più difficile dal dopoguerra ad oggi non dirò una parola che non sia d’amore. Di un amore pieno di rabbia, ma solo d’amore.
[serena_g]